La macchina del tempo di Emanuele Mantovani
Entrare nello studio di Mantovani significa percorrere un itinerario a ritroso nella memoria.
Risalire le tracce delle nostre radici.
Ritrovare nei meandri dei nostri ricordi e del nostro vissuto particolari, paesaggi, materiali e sensazioni, che il caotico turbinare del nostro vivere disattento ci aveva nascosto.
Quei paesaggi forse non li abbiamo visti, ma li avremmo voluti vedere.
Quegli oggetti li abbiamo guardati, ma non li abbiamo visti.
Ragazzino, affetto da una forma infettiva ai polmoni, che lo obbligava ad evitare l'acqua, aveva escogitato un mezzo di diluizione degli acquerelli, che richiedeva l'uso di liquidi... corporali: si è abituato presto, Mantovani, a fare di necessità virtù!
A soddisfare i propri impulsi espressivi con poveri mezzi.
A utilizzare in modo diverso ciò che sembrava destinato unicamente ad un uso specifico.
Un lavoro di recupero, che è il filo conduttore della sua tensione d'artista.
L'operazione che compie è di destrutturazione delle forme e di ricomposizione, secondo una logica che richiede l'oblio di una funzione e l'assegnazione di un'altra.
La separazione degli elementi di un oggetto di uso comune è necessaria per dare ad ognuno dei particolari che lo compongono un senso diverso, non più legato alla sua funzione primaria, ma finalizzato a soddisfare le necessità ludiche delle nostre sensazioni.
Non ci sono oggetti esclusi da questo processo, come non ci sono materiali che vengono rifiutati.
Tutto può rivendicare una nuova dignità. Qualunque oggetto, per quanto piccolo e insignificante, può ribellarsi alla funzione e all'uso che qualcuno gli ha assegnato. Può sfuggire ad un destino di distruzione in una pattumiera o un inceneritore, per rivivere a nuova esistenza. E cosa di più bello che diventare componente importante di un'opera, capace di stimolare la nostra sensibilità?
Se l'operazione appena descritta può essere definita di recupero fisico, c'è un'altra direttrice che conduce ad un recupero di valori, rappresentato dalle opere in arte povera.
Quante immagini che ci ricordano persone e situazioni ormai lontane, abbiamo dimenticate in un cassetto o in uno scatolone?
Di loro viene esaltata l'intrinseca bellezza, riprodotte su oggetti singoli, costruiti a mano, che ravvivano il piacere dell'esclusività, piacere che oggi con le produzioni in serie diventa difficile provare.
Anche le opere pittoriche rientrano in questa logica.
I paesaggi, le vedute, gli scorci, sono quelli che lui ha vissuto e amato.
Non però rappresentati pedissequamente, fedeli in tutto e per tutto alla realtà.
La sensibilità dell'artista li vuole depurati da qualunque riferimento che possa collocarli in un'epoca precisa.
Sono luoghi che non hanno tempo: non devono valere per la loro evocatività storica, ma emotiva.
Visitate il suo studio, recupererete emozioni sopite... come ritrovare in soffitta un album di ricordi, o un oggetto che credevate di aver perso. Rivedrete paesaggi come in un deja vu: sarete convinti di averli già vissuti, ma vi faranno provare una nuova vibrazione emozionale.
E comunque, in un mondo che ci costringe alla fretta, a guardare e non vedere, a gettare ciò che non è più direttamente utilizzabile, è bello perdersi in una atmosfera rarefatta, in cui il tempo sembra essersi fermato, in cui tutto acquista un valore più profondo... e prenderete una boccata d'ossigeno nel caotico magma quotidiano!
Massimo Fantuzzi